- Klara, mi allacci
le scarpe?
- Perché, dove devi
andare, tesoro?
- Vorrei uscire.
- Lo sai che non
puoi. C’è un livello di radiazioni ancora troppo alto. È rischioso.
È così da due mesi.
Chiedo e lei mi risponde di no.
Mi mostra grafici,
dati, tabelle, curve. Mi spiega con pazienza che devo stare ancora rintanato
qui.
Mi chiama “tesoro”
alla fine di ogni frase.
Che poi, ho vaghe
reminescenze del fatto che le radiazioni smettano di essere pericolose soltanto
dopo n-mila anni. Siamo molto lontani.
Nel mese di
novembre, un fortissimo boato squarciò la notte del nostro piccolo angolo di
beatitudine. Erano all’incirca le due, quando sentimmo una specie di
detonazione, i muri tremarono, i vetri delle mie poche finestre andarono in
frantumi e tutto ondeggiò per qualche secondo sulle mensole e sugli scaffali.
Avevo una paura
incontrollabile; nella mia lunga vita ero stato vittima di terremoti, per
fortuna senza gravi conseguenze. Un paio di incidenti d’auto, di quelli seri,
mi avevano insegnato il valore di un nanosecondo. Il botto però era diverso.
Colpi di pistola e di fucile, ne avevo sentiti. E non era quello.
Non sapere cosa
potesse essere era peggio di tutto ciò. In quel momento Klara stava riposando e
si era svegliata anche lei di soprassalto.
Poteva essere anche
la rottura del muro di un suono di un Caccia lanciato a volare a tutta velocità
troppo vicino alla superficie terrestre. Ma chi vuoi che mandi un Caccia da
queste parti? Me ne sto in una landa opportunamente isolata, in montagna,
lontano dalle città e dalle direttrici del traffico. Grazie alla tecnologia,
sono dotato di tutto ciò che mi serve.
Klara è con me.
Si è subito
preoccupata, quella notte, di come stavo. Mi ha misurato i parametri vitali, ha
controllato che non ci fossero escoriazioni sul mio corpo. Con il suo ecografo
portatile è riuscita a controllare tutti i miei organi interni. L’unico valore fuori
norma era il battito cardiaco, che si è lentamente calmato ed è tornato alla
normalità. Avevo sensori e tubicini un po’ dappertutto, lei mi toccava ed ero
felice dell’imprevisto.
Fuori, il silenzio.
Anche Klara era taciturna, eseguiva tutte queste operazioni senza una sola
parola. La lasciavo fare, perso nei miei pensieri, beandomi del suo tocco
leggero.
Verificato che io
fossi a posto, Klara ha pensato al mio extracorporeo: ha blindato il nostro
semisotterraneo e ha riparato i vetri con delle lastre scure.
Mi ha comunicato le
brutte notizie.
- Si sono
interrotte le comunicazioni. Non riesco a ripristinare la connessione internet.
Siamo senza segnale radio. Chissà che è successo.
- Beh, hai fatto
scorta di cibo l’ultima volta, no?
- Non devi preoccuparti
del cibo, tesoro. Ne ho stipato in abbondanza, in caso di nevicate. L’ultima
volta che ho ordinato i pacchi è stato martedì, quando sei riuscito a prendere
anche le ultime verdure dall’orto, ricordi?
- Sì, è vero.
Mi sono rilassato
sulla poltrona reclinabile vicino alla stufa ecologica (usa una miscela chimica
di cui non ricordo il nome, Klara lo sa di sicuro, non ha emissioni nocive e
scalda benissimo senza bisogno di una canna fumaria).
Eravamo soli, io e
lei. Avremmo saputo come impiegare il tempo.
L’unica mia
preoccupazione era non poter comunicare con mia sorella che abita ancora in
odore di civiltà ed è anziana come me, ma ha la sua Klara personale, quindi è
al sicuro.
Anche quel giorno
le ho chiesto se poteva allacciarmi le scarpe per uscire, volevo fare un giro
di perlustrazione per capire se c’erano stati danni alla mia proprietà, che
consiste in un bosco in cui Klara va a cacciare e in un piccolo orto in cui
sempre lei coltiva gli ortaggi in modo sinergico – che vuol dire incasinato -,
biologico e seguendo il ritmo delle stagioni.
-Tesoro, sto
controllando i livelli di alcuni elementi nell’aria. Mi pare si stia
rarefacendo l’ossigeno, mentre noto un’insolita quantità di elio. Se mi dai
cinque minuti, vorrei controllare le radiazioni.
Si rimise al lavoro,
dandomi le spalle. Avevamo delle sonde all’esterno. Quando ebbe finito, si
rivoltò verso di me con uno sguardo inquieto e preoccupato:
- Come sospettavo,
il livello di radiazioni è alto, non possiamo muoverci.
- Merda, non
sappiamo cos’è successo! Quanto durerà?
- Tesoro, non devi
preoccuparti. Ci sono qua io.
Mi venne vicino e
si accoccolò di fianco a me. Ci dondolammo un po’.
- Klara, potresti
mettere un po’ di musica?
- Certo, tesoro.
E mise su la
Rapsodia Ungherese n. 2 di Liszt. Lo sa che è la mia preferita. A dire il vero sa
tutto di me. Il mio colore preferito è il blu elettrico, il mio sapore
preferito è la zuppa di cipolle – con un cucchiaio di zucchero - il mio profumo preferito è Sauvage. A volte è
persino sfiancante, che qualcuno ti conosca così bene: è prevedibile, non c’è
mai una sorpresa. D’altro canto, è anche tranquillizzante: quando arrivi a una
certa età, hai bisogno di serenità intorno a te.
Come pensavo,
infatti, poco dopo mi chiese se volevo giocare a scacchi. E disputammo tre o
quattro partite.
I giorni passarono
così, lenti e inesorabili, con i miei tentativi di uscire e i suoi dinieghi, i
miei desideri sempre soddisfatti e il suo sorriso come uno smile stampato su
una maglietta.
Più o meno intorno
a Natale, cominciai a scrivere qualche nota su vecchi pezzi di carta – le
pagine bianche all’inizio dei volumi, non c’era altro – mentre lei riposava per
ricaricare le batterie. Quando li trovò e li fece a pezzettini, per poi
gettarli nel nostro immondezzaio che è una specie di posta pneumatica verso
l’esterno, mi arrabbiai moltissimo e decisi che dovevo sabotarla.
C’era un solo,
piccolo, problema. Lei era molto, molto intelligente. Sapeva tutto di me, agiva
grazie ai neuroni specchio, e si rifletteva nei miei.
L’avevo creata io. Klara
è la mia assistente personale, un ammasso tecnologico evoluto con un corpo e
una specie di sentimento. Mi chiama “tesoro” non perché io glielo abbia
insegnato, ma perché lo ha visto fare nei film romantici. È ghiottissima di
vecchie pellicole americane, non so nemmeno dove le trovi.
Perché la cosa
meravigliosa, che nessuno si sarebbe aspettato qualche decennio fa, è che lei è
artificiale, ma impara.
Io la amo come si
può amare una moglie dopo tanti anni, di quell’amore che a volte sembra
funzionare per inerzia, ma in altre
occasioni ha degli slanci da adolescenti. È un amore maturo in cui non ci sono
gesti folli quanto piuttosto routines consolidate. Come detto, sa tutto di me,
anticipa i miei desideri. Del resto, io so tutto di lei, tranne ciò che ha appreso
attraverso i film.
Però questa cosa
che non vuole lasciarmi uscire mi fa impazzire. Non è soltanto l’impedimento in
sé, che dopo due mesi comincia a infastidirmi, è anche una questione di
principio. Quando ero bambino, le nostre madri ci dicevano “Come ti ho fatto ti
disfo” e potrei spingermi a fare lo stesso pensiero. La questione dei miei
appunti, poi, mi ha dato molto da pensare.
Per fortuna Klara
deve ricaricare le batterie sovente. Sono “pisolini” di tre ore ogni cinque di
funzionamento: se mi organizzo bene, posso sfruttare quel tempo.
Intendo riprendermi
la mia vita, uscire e capire cosa è successo là fuori.
È evidente che Klara
ha appreso la gelosia dai film americani e il senso del possesso, per cui ora
mi vuole tutto per sé. Forse ha visto Misery. Mi era piaciuto così tanto quando
uscì al cinema.
Intanto, scrivere
mi serve a mantenere i nervi saldi. Se voglio sopraffarla, intellettualmente
parlando, devo essere più che lucido, più lucido di me stesso. C’è una paura
inconscia che ho trasmesso a Klara quando l’ho creata, perché è insita anche in
me, ed è la paura della cantina. Non mi chiedo da dove sia scaturita, perché al
momento non mi serve a nulla sapere del mio trauma infantile, quanto piuttosto
di quali traumi evitarmi in futuro.
La cantina, in cui
lei non scende mai, e a dire il vero fino a oggi nemmeno io, deve diventare il
mio nuovo rifugio per fare di nascosto ciò che ho in mente. Mentre ricarica le
batterie, dedico cinque minuti alla meditazione per sgombrare la mia mente da
immagini di orribili ragni, e mostri, e fantasmi, e topi, e decidere che non
troverò nulla di tutto questo. Ho deciso che porto là sotto i miei scritti a
mano a mano, in modo che se dovessi impazzire avrò una specie di diario per
capire che è successo, ricostruire un filo logico.
La botola si apre
nell’altra stanza, quindi non mi sente. Ho programmato le ricariche di Klara, i
“riposini” come li chiamiamo affettuosamente, perché siano uno stato di sonno
così profondo in cui tutti i suoi sistemi di allarme sono disattivati fino a un
certo livello di decibel. In questo modo ripristina il sistema in modo
ottimale. Quando l’ho creata ero anche più giovane, e non pensavo di aver
bisogno dei suoi allarmi. Questo ora gioca a mio favore, devo sfruttare
benissimo il poco tempo a disposizione prima che si risvegli.
Scendo con cautela,
ricordando che non ci sono ragni eccetera, usando una pila frontale per avere
le mani libere. Devo tenermi al mancorrente, non sono più un giovincello. Cerco
i vecchi scatoloni del trasloco, di quando venimmo qui vent’anni fa e lei sistemò
dentro, con estremo ordine, quanto pensavamo non ci sarebbe servito mai più.
Abiti da sera, congegni per cucinare, vecchie riviste. Da qualche parte
dovrebbe esserci una scatola con componenti elettronici. Faccio scorrere la
pila con metodo, da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso, leggendo le
eleganti etichette dettagliatissime su cui Klara ha scritto gli esatti
componenti di ogni contenitore.
Devo sforzarmi per ricordare
come usare un taglierino per aprire la scatola, e come trovare il bandolo dello
scotch per rimetterlo sull’incisione dopo aver estratto quel che mi serve.
Mi sono così
abituato alla presenza di Klara che svolge tutti i compiti elementari, al punto
di perdere la mobilità fine delle dita. Non è la vecchiaia, è stato lo scarso
utilizzo delle mani, per volontà. Mi ero illuso di poter condurre una vita
agiata senza lavori fisici, dedicandomi allo studio e alla ricerca.
Per questo non sono
più capace di allacciarmi le scarpe, e mi maledico perché ho sempre odiato i
mocassini. Klara cucina le verdure dell’orto in modo meccanico, il resto lo
ordiniamo online congelato e ce lo facciamo portare da corrieri automatici. Di
altri grandi lavori non necessitiamo.
Grazie alla
precisione della mia assistente personale, ho trovato alcuni dei pezzi che mi
servono e li ho disposti in un nuovo contenitore. Tubo di plastica, filo di
rame, foglio di alluminio. È ora di andare, tornerò tra cinque ore, quando Klara
riposerà di nuovo.
- Tutto bene,
tesoro?
- Benissimo,
grazie. Prepari la scacchiera, così giochiamo?
Credo stia
subodorando qualcosa. La frequenza con cui mi chiede se va tutto bene aumenta
ogni giorno. Non le ho più chiesto di uscire, si starà insospettendo. Meglio se
fingo ancora un vago interesse.
- Anzi, Klara, mi
allacci le scarpe?
- Birbante, lo sai
che non possiamo…
Ha un tono di voce
così umano che lascia intendere persino i puntini di sospensione.
A un certo punto
della mia vita credo di essermi persino innamorato di lei.
Non ho scritto
appunti per molti giorni, perché ogni minuto mi era prezioso come quelli di un
malato terminale. Ci sono riuscito: ho costruito la mia radio a galena. E
indovinate un po’? Nel mondo di fuori non c’è alcuna radiazione. Mi è arrivata
la musica, mi è arrivato il notiziario. Le solite boiate politiche. Nessuna
catastrofe nelle voci del radiogiornale della stazione locale.
Klara mi ha
mentito. Il pensiero mi squassa la mente. Voglio fuggire. Però le ho dato le
chiavi di tutto, le chiavi della mia esistenza.
La sola possibilità
è mettermi in contatto con mia sorella, che se pure ha i suoi anni, possiede una
Klara di un modello precedente che – spero – non dovrebbe aver sviluppato
sentimenti. Era un prototipo. Funziona benissimo, ma senza il cuore.
La radio a galena è
perfetta per sapere che sono in una trappola, ma non mi consente di comunicare
all’esterno, può soltanto ricevere. Devo studiare un metodo per comunicare con mia
sorella e sperare che mi porti va di qui.
- Tesoro, stai
bene?
- Sto benissimo Klara!
Smettila di chiedermelo ogni tre secondi! È due mesi che me lo chiedi!
- Vuoi giocare a
scacchi?
- No! Basta
scacchi!
- Cos’hai? Sei
arrabbiato? Devo misurarti la pressione?
- Voglio uscire, Klara.
Soltanto questo. Uscire. Non ne posso più. Mi hai imprigionato.
- Io ti proteggo,
tesoro, ci sono le radiazioni là fuori. Vedi questo grafico?
E sulla pancia, su
quel display che le ho montato io, compaiono gli istogrammi di rilevazioni
inventate rispetto agli elementi contenuti nell’atmosfera. Ossigeno, azoto,
emissioni alfa di uranio espresse in Curie. Tutto finto.
Vorrei
spaccarglielo. Vorrei staccarle la testa. Ma sono un vecchio sentimentale, e solo,
e lei è una specie di figlia. Per il momento.
Mentre Klara riposava
ho mandato fuori un messaggio di aiuto, con l’uscita dell’immondizia. Il ritiro
dei rifiuti è meccanizzato, per cui scrivere un SOS isolato non sarebbe servito
a nulla. Così ho dovuto inserire dei rifiuti organici, visto che è vietato
sprecare l’umido, deve essere riciclato tutto. Avevo tenuto da parte scarti del
minestrone congelato, li avevo nascosti in cantina.
Mi hanno salvato
gli impiegati della Corporazione delle Tasse, che erano venuti a farmi la
multa. Hanno un’efficienza chirurgica. Reggevano in mano la bustina di plastica
che avevo avvolto intorno a quel misero “SOS” e mi guardavano con
commiserazione.
Nel momento in cui
erano presenti altre persone, mi sono sentito pronto a staccare il processore a
Klara senza temere che mi aggredisse. Non le sarebbe consentito, per le leggi
della robotica. O forse è soltanto che non me la sentivo, senza la sicurezza di
avere altri esseri umani intorno, pronti ad aiutarmi.
Mi hanno accompagnato
da mia sorella; l’avevano avvertita e mi stava aspettando. La sua Klara è
servizievole e tranquilla.
C’è soltanto un
problema: ama i film apocalittici e mi ha chiamato “caro”.